
Con la sensazione che «è qui», «è per me» e «sono i miei», erano arrivati in Italia poco più di due mesi fa per porre le loro mani sul dolore e scambiare in aiuto e sopravvivenza l’ecatombe con la quale il coronavirus ha preteso di trasformare il già cattivo equilibrio del mondo.
Se per certi esseri è sufficiente stare in salvo dal male, col cielo come unico tetto, o dall’abisso che impongono le ingiustizie sociali; se essere fortunati si riassume per loro nel proprio benessere e la disgrazia degli altri non conta, questo non succede con i medici cubani.
I nostri lasciano una scia d’amore dove passano e giungono per infondere nei sofferenti una forza che annulla le disgrazie della sorte. Vanno lì dov’è più duro e necessario risanare e stanno dove altri non hanno sporcato il loro bianco camice.
Hanno il semplice onore d’essere i soli che molti degli sfortunati «nessuno» hanno visto qualche volta, d’aver regalato il miracolo della sopravvivenza, anche quando il male sofferto era curabile. Ed hanno la benedetta mania di guardare i malati, di saperli ascoltare, anche se in un’altra lingua, di toccarli lì dove fa male, di sorprendere con un trattamento vicino e caldo per ridare, quando era perduta, la speranza di restare in vita.
Quelli che in particolare animano tutto questo erano partiti per la Lombardia nei giorni in cui la pandemia era arrivata da poco nel nostro paese e Cuba guardava stupefatta le immagini desolate dell’Italia e della Spagna mostrate dai media. Con molti dubbi, carichi d’incertezze per vivere una scena inedita, anche se fiduciosi nell’efficienza del sistema di Salute cubano, la realtà abbattuta e lontana di quelle terre si era fatta frequente e ci faceva male al cuore.
Abituati come siamo a sapere che in questi luoghi dov’è urgente l’assistenza sanitaria c’è Cuba, ci ha sorpreso il richiamo della settentrionale regione italiana di fronte alla mancanza di personale per combattere là la COVID-19, e che la Brigata Henry Reeve –che aveva vinto l’ebola nelle terre africane, per dire solo una recente prodezza– partisse per soffocare la morte con tutto l’amore possibile.
Quando i vicini con destini comuni hanno chiuso le loro porte per evitare l’espansione del virus, i passi dei nostri sono stati fermi e hanno sparso con la semplicità che deriva da suolo in cui si sono formati, generosità e altruismo.
Al di là dei numeri - 36 dottori, 15 infermieri e uno specialista in logistica, 550 assistenze mediche, 3668 d’infermeria e 219 dimissioni a carico dei nostri professionisti in quei luoghi – c’è un’impronta di quattro lettere che non dimenticheranno mai, né chi è stato soccorso né il mondo, anche quando la viltà imperiale insiste a screditare i nostri eroi reali, quelli che all’usanza martiana sono buoni perhcè sì e perchè lì dentro provano piacere quando si fa del bene.
Sparse nella geografia del mondo più di 30 brigate con circa 2500 professionisti della salute combattono la pandemia della COVD – 19.
Quella che oggi ritorna in Patria lo fa ricca d’intense esperienze nelle quali è stato più importante salvare gli altri che rischiare la vita.
Non è per caso che voci internazionali reclamano in questi giorni per la brigata che bacia il mondo il Premi Nobel della Pace.
La proposta è da vedere, ma ce n’è un’altra che non si può annullare, quella della ricompensa che li distingue come unici, perchè offrono la cosa più grande che ha il loro paese: la grandezza del suo umanesimo.
Il premio dell’abbraccio del loro popol li aspetta. (GM – Granma Int.)




