OFFICIAL VOICE OF THE COMMUNIST PARTY OF CUBA CENTRAL COMMITTEE

In molte occasioni si tende a paragonare epoche e stili musicali ma se ci limitiamo al fatto puramente artistico, sappiamo che questa pratica suole cadere nel nulla di fronte all’impossibilità di misurare l’arte come una concatenazione logica di elementi comuni.

La musica, astratta e intangibile dalla sua intrinseca concezione, può portarci a diverse maniere d’interpretazione personale in dipendenza dai circoli nei quali ci muoviamo. Però, si tratti di una tendenza con profonde radici popolari o del più raffinato solista, una realtà circonda tutto l’universo risultante dell’arte sonora: il buon gusto.

Esiste forse una sola opzione per misurarlo? Come delimitare quello che in distinte nicchie del mercato si può considerare legittimato o accertato?

Come non entrare in contraddizioni estetiche tra i distinti modi d’apprezzare la musica?

In ogni manifestazione sonora coabitano smorfie e maniere proprie d’espressione che, anche se non sono conosciute da altre udienze, illustrano bene quello che potremmo denominare l’universalizzazione del genere o la standardizzazione dei codici.

Per esempio, se ricorressimo al complesso della rumba, non si potrebbero qualificare come semplici né volgari i diversi tipi di ballo o i tocchi di ogni ciclo, anche se sono basati nella sensualità, la virilità o l’accoppiamento.

Nulla di grottesco o visibilmente offensivo riguarda una columbia, un guaguancó o un yambú, e anche  nello sguardo di coloro che non conoscono le loro interiorità, lo spettatore potrà identificare un prodotto di buon gusto.

Se ci trasferiamo a una zarzuela come Cecilia Valdés, in un esercizio nel quale potremmo applicare lo stesso schema, basato in un’audience che non è affine al genere nè alla storia da raccontare, succederebbe lo stesso.

La musica, la gestualità dei solisti e tutte le  interazioni dell’opera s’incaricheranno di portarlo a uno stato d’opinione nel quale il buon gusto sarebbe un bocconcino ricorrente nelle opinioni al rispetto.

Anche in queste vicende va considerato un elemento primordiale: il mercato.

Sia positivamente che negativamente la proposta di una presunta «democratizzazione musicale», per soddisfare un pubblico  con determinati gusti e potere acquisitivo, non è un  fattore da disdegnare.

Per anni é stato una spada di Damocle per il consumo dell’arte musicale e, in varie occasioni, hanno anche coinciso in linee convergenti, in altre è stato la causa della fine di carriere e stili per dare spazio a spazzatura, parlando letteralmente.  

Nulla giustifica, musicalmente, l’esaltazione alla violenza,  alla degradazione della donna come simbolo di sottomissione sessuale, e nemmeno la nuova formulazione  di codici come la gestualità attorno alla zona pubica, sempre più ricorrente.

Il linguaggio verbale offensivo, molte volte razzista o sbozzando le più impronunciabili parole, non possiede  bordi di standardizzazione al di là di un succulento circolo di consumo che genera guadagni economici , non di buon gusto.