OFFICIAL VOICE OF THE COMMUNIST PARTY OF CUBA CENTRAL COMMITTEE
26 di Luglio. Photo: Pastor Batista

Due ragazze e il grande spazio con i tavoli da biliardo e l’inevitabile riferimento al divertimento formano un macabro contrasto con le urla raccapriccianti che la porta non riesce a spegnere.
Due ragazze, senza nemmeno un fazzoletto per asciugarsi il sudore o le lacrime, che vedono che questa porta si apre e i soldati lasciano sul pavimento un giovane che non possono riconoscere perché il suo volto è un ammasso di carne ferita e le gengive gonfie senza denti non gli permettono d’articolare una parola.  
Qualcosa nello sguardo svela l’amico, il poeta, e lui tende loro una carta, confidando che giungerà al suo destino : «Mi hanno preso, tuo figlio».
Poi lo portano via, si sentono le raffiche e non lo vedono più.
È un’operazione che ripetono una e un’altra volta mentre a loro si riempiono le orecchie di grida, spari e insulti e gli occhi dei corpi  giovanissimi massacrati.
 E quando chiedono loro chi delle due è Haydee Santamaría, Melba Hernández le prende la mano e insieme ascoltano la crudeltà: a Boris, il fidanzato di Haydee, hanno tagliato i testicoli, ma se lei dice i nomi degli implicati in quell’assalto, lo salverà: «Se lui ha saputo stare in silenzio, non lo tradirò io adesso», risponde.
Poi sente che sì lo hanno assassinato mentre lui si difendeva come una fiera. 
Loro sono le testimoni: quelle che hanno visto il dottor  Mario Muñoz Monroy ucciso con spari nella schiena,  e poi furono portate nella stanza della tortura, con sangue sul pavimento, sangue sulle pareti, sangue sul soffitto… 
Sono le stesse che sognarono di vedere Abel Santamaría ancora una volta, e sussurrargli «Fidel è vivo», pur senza saperlo, per far morire contento  quello che aveva ripetuto sino all’esaurimento nell’Ospedale Civile: Fidel è quello che deve vivere!, se Fidel vive la lotta continua!.
Ma  Abel non sopravvisse, come nemmeno altri 54 ragazzi vittime d’una carneficina spietata dopo gli assalti alle caserme  Moncada, a Santiago di Cuba, e Carlos Manuel de Céspedes, di Bayamo. Solo sei erano morti nelle azioni. 
Il 26 di Luglio del 1953 se tinse di sangue, come il 27, il 28, e il 29. Il 30 luglio ammazzarono l’ultimo: Marcos Martí. Aveva 19 anni.
Quando  Haydee, nel Vivac di Santiago, ascoltò  un clamore e la frase  «è Fidel», uscì dal letargo e riuscì a piangere lungamente il dolore di quei giorni e passò tutta la notte  a piangere: era già sicura che suo fratllo era morto, ma che la principale speranza di Abel, quella lo mantenne felice e sereno nell’anticamera della morte, rimaneva.
Poi ci furono il processo, il carcere e l’esilio, il Granma, la Sierra e la Rivoluzione, e dietro a tutto il sangue che non dovevano ( e non dobbiamo) dimenticare, sangue di giovani martiani, umili, figli, mariti e padri, sangue che disonorò maggiormente la dittatura, che si radicò in parte della popolazione e sostenne i sopravvissuti. 
Quello stesso sangue che, bloccate in un balcone, le due ragazze erano state obbligate a osservare, burlate dai loro aguzzini; tanto sangue che la brezza muoveva , –pensò una di loro– come un mare sereno. E che poi, senza dubbio,  ribollì ribelle per i destini della Patria.(GM/ Granma Int.)