
Perchè il Che non morì in quell’ottobre di quasi 56 anni fa? Perché umiliarlo se lui fu più grande dei suoi vessatori?
«Si rilassi e miri bene! Lei sta per uccidere un uomo!», disse al vice ufficiale assassino, guardandolo negli occhi in quel fatidico 9 ottobre del 1967.
Un cubano che fu agli ordini del Comandante Guerrigliero esalta le qualità umane e d’amore di chi continua ad essere il Che, il suo capo in combattimento e nella vita quotidiana.
Efrén de Jesús León Nápoles –León, come lo conoscono i suoi familiari – a 86 anni ne fa il ritratto in carne e osa la vera figura degli Eroi.
Il tenente colonnello (r) delle Forze Armate Rivoluzionarie aveva 20 anni quando giunse sulla Sierra, vestito da contadino, coi pantaloni rotti e le scarpe senza stringhe.
León, che ha una memoria prodigiosa, ricorda il Che al di fuori dei canoni noti, l’uomo valoroso, il Guerrigliero, lo stratega militare, battendosi sulla Sierra Maestra, nella conquista della caserma de Güinía de Miranda, nella Battaglia di Santa Clara, nel Congo, nell’inospitale selva boliviana... statista brillante, intellettuale, economista,...
«Perchè il Che ha fatto tanto in così poco tempo?», si chiede León.
E lui stesso risponde: «Per convinzione ma soprattutto per amore».
Si dedicò con amore a tutto quello che fece.
Quando seppe che sua nonna era malata, entrò nella sua stanza e non ne uscì sino a che lei chiuse gli occhi. Allora decise di diventare un medico.
«Quando giungevano i feriti nella Sierra, lui li curava facendo valere la sua condizione di medico. Il Che era creativo, entusiasta e sapeva essere il
primo in tutto, e per questo fu il primo a guadagnarsi i gradi di Comandante.
Lasciato El Salto, nella Sierra Maestra, il 31 agosto del 1958, la colonna ocho Ciro Redondo, comandata da Guevara, con 140 uomini, attraversò parte del territorio orientale, sino a raggiungere le pianure di Camagüey.
Efrén racconta che quando il Che li riunì per parlare della missione d’andare a Las Villas, realizzando una strategia militare ordinata da Fidel Castro, li avvisò dei rischi che questo poteva provocare.
Combattere nel piano non era come farlo sulle montagne, disse loro, e che non era obbligatorio fare quella traversata.
«È un atto d’amore, anchequello che dice a Fidel, nella lettera di commiato: ... È giunta l’ora di separarci. Si sappia che lo faccio con una miscela d’allegria e di dolore; si sappia che io lascio qui le mie speranze più pure di costruttore e tutto l’amore per i miei cari più amati … e lascio un popolo che mi ha accettato come un figlio».
«Chi può dubitare che non fu per un atto d’amore che salpò nello yacth Granma verso Cuba, il 25 novembre del 1956, dopo che Raúl lo aveva presentato a Fidel, verso una patria che non era la sua, ma che amò tanto che, nella sua lettera di commiato riconobbe che se gli giungeva l’ora definitiva, il suo ultimo pensiero sarebbe stato per questo popolo e soprattutto per Fidel?».
Efrén lo dice piano. La sua gola si muove come dovesse inghiottire qualcosa: «Il Che non perse la fede nell’amore neanche nei momenti più difficili, in mezzo a enormi vicissitudini, scarsità o mancanza totale di alimenti, marce faticose nelle montagne e nella selva, l’assedio
costante del nemico con poderosi mezzi da combattimento…».
Chi può dubitare allora che non fu un gesto d’amore quando, nella piccola scuola di la Higuera, chiamò traditore e sputò in faccia a quel mercenario, agente della CIA, o quando gli disse: «Digli a Fidel che presto ci sarà una
rivoluzione trionfante in America». ( GM/ Granma Int.)