
Voglio tornare a respirare l'aria di Cuba. Magari in una di quelle sere in cui il vento, dopo aver schiantato un miliardo di onde sul Malecon, si placa, smette di rincorrerti e inizia a seguirti dolcemente, e ti viene a cercare come volesse chiederti scusa per averti strapazzato tutto il giorno.
E ti trova. E ti accarezza.
Voglio tornare a respirare quell'aria, che non è solo quella dell'Avana. Non è solo quella che respiri da Las Tumbas a Maisí. E non è solo quella che respiri con i polmoni. E' aria pulita, leggera. E' mare, sole, natura. E' musica, arte, cultura, curiosità e confronto aperto. E' solidarietà, empatia, incontro. E' l'aria di Cuba, quella che anima la sua identità. E' l'aria che voglio tornare a respirare.
Voglio cambiare aria, ma soprattutto prospettiva. Perché a Cuba ho imparato che, dietro a ogni nostra "inconfutabile" verità, ce n'è sempre almeno un'altra più inconfutabile, anche se nascosta al nostro sguardo. Perché il dibattito sociale, politico, economico e culturale, a Cuba, è più aperto e meno ipocrita che da noi. Lo dico senza timore. Anzi, lo grido. Lo grido in faccia proprio a chi, quando lo dico, solleva un angolo della bocca in un sorrisino di commiserazione: lì si parla e si impreca contro ogni cosa, ma scuole e ospedali restano in piedi, mentre da noi le nostre democratiche manfrine seminano macerie.
La società cubana è complessa, viva e in movimento. Più viva e in movimento delle nostre società, sempre più simili a mosche cieche impazzite che per cercare nuove vie sbattono continuamente contro il vetro. Noi cerchiamo vie facili e veloci, ma nelle democratiche riffe dei diritti vince sempre chi i diritti ce li ha già: se hai più soldi, puoi permetterti più "numeri". A Cuba, vie facili e veloci non ce ne sono. Per giunta, Cuba ha scelto quella più lenta, complessa e faticosa: quella della solidarietà interna e Quella stessa Cuba che per gran parte del mondo si trova in permanente stallo tra mito e disinganno, sapientemente combinati dall'ideologia post-ideologica, è per me tutt'altro che un mito, meno che mai un inganno.
Fatta di sangue e carne viva che soffre di una guerra tuttora in atto (che pochi ammettono) e dei suoi stessi connaturati problemi, Cuba è per me una pietra angolare, l'emblema di una prospettiva "altra", quella del "mondo di sotto", della lotta quotidiana combattuta sui contenuti e lontana anni luce dalle nostre miserie fatte di forma e di nessuna sostanza.
Voglio tornare a Cuba perché ho bisogno di un'altra prospettiva, di sentire e parlare di politica e diritti, e non di interessi. Cuba ha preparazione e cultura per parlare e non parlare a vanvera. I cubani hanno consapevolezza, conoscenza e capacità di leggere e interpretare la loro propria Storia. Per questo mi fa ridere chi vorrebbe insegnare loro la strada per la felicità.
Per questo, ai miei occhi, Cuba appare un gigante, al confronto con noi che non siamo mai stati capaci di dare un nome ai nostri incubi.
Cuba è un Paese "normale": c'è gente politicizzata e chi vive alla giornata. Ciò che a Cuba non è "normale", invece, è il senso di identità, di orgoglio, di appartenenza, di indipendenza, di desiderio di autodeterminazione.
Sentimenti che piacerebbero anche a noi, ma che noi non siamo più in grado di esprimere.
Parlando con alcuni amici cubani davanti a un boccale di birra, ho cercato di intuire lo "stato d'animo nazionale" di questo particolare momento storico che per semplicità voglio chiamare del "dopo Fidel". Ho voluto raccontare ciò che mi è toccato sentire dai nostri telegiornali nei giorni del funerale. Ho detto: "Non credo di dire cose che già non sapete". "E' probabile", mi hanno risposto, "ma siamo curiosi!". Così ho proseguito: "L'inviato di uno dei nostri maggiori telegiornali, mostrando il corteo funebre, ha detto che la gente SEMBRAVA triste e che, data la moltitudine, evidentemente stava seguendo l'esortazione del Partito a partecipare".
Ho visto dipingersi sui loro volti la stessa identica reazione: per un milionesimo di secondo i loro occhi si sono stretti come ad annunciare un'esplosione di rabbia, ma hanno subito cambiato espressione. Con sorriso rilassato, uno di loro mi ha risposto: "Dovresti spiegare ai tuoi amici che non si dovrebbe mai parlare di cose che non si conoscono e non si capiscono.
E' probabile che conoscano poco e male la vita di Fidel, ma è certo che non sanno nulla dei cubani: se a un cubano dici di fare una cosa, puoi star sicuro che farà il contrario!".
Ho chiesto cosa è cambiato dal giorno dell'annuncio congiunto di e Raul e Obama. "Nei fatti, nulla" hanno risposto, "il blocco è come prima e forse peggio. In giro si vedono più nordamericani, ma non sono ancora turisti a tutti gli effetti: sono quelli che rientrano nelle 12 categorie 'liberalizzate'". "Ma sono tanti" ho detto, e ho capito che dentro quelle
categorie probabilmente ci entra di tutto.
"Il turismo puro e semplice è ancora proibito" hanno continuato "perché bandito dalla legge americana, che tra l'altro proibisce - anche a quelle 12 categorie - la libera frequentazione di luoghi pubblici e spiagge". Mi scappa un commento: "Evviva la liberta!". "Già, viva la libertà", risponde uno degli amici, che prosegue: "Nelle chiacchiere invece sembra cambiato tutto: tutto a posto, tutti amici, così Cuba dovrà ancora una volta fronteggiare una nuova, ennesima ondata di disinformazione, altra polvere che la stampa di mezzo mondo tornerà a sollevare".
Ho raccontato agli amici cubani che, nei tre giorni trascorsi in un cayo, ho sentito il personale del resort rivolgersi agli ospiti in inglese, e mi sono detto dispiaciuto e preoccupato perché se c'è qualcosa di cui noi siamo esperti è la colonizzazione culturale, che inizia dalla lingua. Mi hanno risposto che sì, è un peccato, ma che vogliono mostrarsi aperti, anche per non essere tacciati di "integralismo". Mi hanno detto che non mi devo preoccupare: "Sappiamo quello che facciamo, non sono questi i cambiamenti che ci spaventano. Sulle cose importanti come la sanità, l'istruzione, l'informazione e la difesa, non permetteremo mai nessuna ingerenza. Ce lo sentiamo dire spesso dagli amici: siete spaventati perché nessun socialismo è arrivato fin qui, ma nessuno di noi vuole sciupare 60 anni di Rivoluzione.
Nessuno conosce la ricetta giusta, ma dimmi: qualcuno conosce la ricetta di un capitalismo equo e giusto? Noi stiamo sperimentando, e lo faremo lentamente ma inesorabilmente, anche sbagliando, tornando indietro e ricominciando, come abbiamo fatto spesso in passato, ma non ci fermeremo.
Ricordati: vogliamo un socialismo prospero e sostenibile!". Dico: "Quello che dici mi consola, ma come la mettiamo con il 'potere corruttivo' del denaro? I turisti e gli stranieri delle aziende miste stanno portando molta valuta pregiata. Non pensate al rischio di generare una nuova borghesia?
Come da noi: gente che per il semplice fatto di veicolare ricchezza, pretenderà 'trattamenti di riguardo'". Mi rispondono: "Non si può evitare il cambiamento. In questo momento abbiamo bisogno di valuta come il pane. Cosa dovremmo fare? Fermarci e poi ripartire solo quando avremo trovato i modelli fiscali e legali ideali per sostenere l'equilibrio e la redistribuzione? Non ha senso, purtroppo non si può fare così. Bisogna fare le cose e insieme progettare i modelli per gestirle, ed è ciò che stiamo facendo. Non partiamo da zero: abbiamo tracciato le linee guida di un piano di sviluppo quinquennale e decennale che abbiamo condiviso con i cittadini, così tutti sappiamo dove vogliamo andare, non solo i quadri. Non abbiamo fretta. La liquidità non è ancora sufficiente anche a causa del blocco: gli stanziamenti dobbiamo farli in valuta, non possiamo improvvisare nulla, ma forse è perfino meglio così". Dico: "Il ritorno alla moneta unica sarà un passaggio complesso, ma dovrebbe aiutare a migliorare l'equilibrio e la redistribuzione della ricchezza, giusto?". "Sì, ci stiamo lavorando", e aggiungono: "Siamo in America Latina, abbiamo altri standard. Abbiamo sofferto mille vessazioni, ma non abbiamo paura di soffrire ancora. Faremo le nostre scelte una dopo l'altra, senza correre".
Lancio una questione che mi sta molto a cuore: "Sui nostri mezzi di informazione, anche i più benevoli, mi capita spesso di leggere del disimpegno dei giovani, quelli della generazione successiva alla Rivoluzione, quelli cresciuti nel Periodo Especial nel segno della scarsità e della privazione. Dicono che questi giovani hanno voglia di libertà, benessere e capitalismo, portano vestiti firmati e consumano su Internet i pochi pesos a disposizione. Tutti si chiedono cosa sarà di Cuba quando questi ragazzi raggiungeranno i posti chiave della società". Leggo nuovamente sui loro volti quell'impossibile espressione mista di rabbia e genuino divertimento: "Sappiamo che ci sono dei rischi. I nostri ragazzi desiderano una vita facile anche più dei vostri perché hanno un passato difficile. Ma loro sono esattamente il loro passato e, quando sarà il momento, saranno quello che sono. E poi... qual è il problema? Siccome siamo a Cuba dovremmo essere tutti inquadrati e irreggimentati? Il colmo è che se lo fossimo ci accusereste di esserlo!". E poi proseguono: "Il sistema di valori qui è diverso. Anche il nostro ha dei problemi, ma è difficile spiegarli a chi non conosce il nostro stile di vita. Così come nelle società consumistiche l'individualismo e l'ambizione producono distorsioni letali, anche da noi il paternalismo e la sicurezza sociale hanno prodotto distorsioni. Molto meno letali, ma costituiscono comunque un freno a uno sviluppo ideale. Resta il fatto che abbiamo visioni e sensibilità diverse, e nessuno può pretendere di imporre all'altro una soluzione basata sulla propria visione". L'altro amico incalza: "In tutte le società c'è sempre chi se ne frega di qualsiasi cosa. Non puoi pretendere da tutti lo stesso impegno e la stessa applicazione. Ma dimmi, in quale Paese le scelte politiche sono guidate e condizionate dai giovani disimpegnati? A Cuba c'è di buono che chi occupa i posti chiave è preparato e consapevole".
La birra è finita e anche la serata, ma c'è ancora qualcosa sospesa nell'aria che gli amici mi devono dire. Se ne fa interprete quello che era rimasto un po' più in silenzio. Mi guarda con un sorriso sornione. Sembra esitare, poi mi chiede: "Fidel è morto. Lo sai chi sarà il prossimo lìder?".
Dico: "Forse l'attuale Vice Presidente?". Dice: "No". Dico: "Beh, allora non lo so". Mi guarda e sorride, poi dice: "Davvero non lo sai?". Intuisco che vuole mandarmi un messaggio che va oltre il senso delle sue parole. Mi tiene ancora un po' sulle spine, poi mi dà la risposta: "Dopo Fidel il nuovo lìder sarà Fidel". Solo a quel punto realizzo. Dovevo capirlo subito: non era il lìder "amministrativo" quello a cui alludeva. Cerco di abbozzare un timido sorriso: in quel momento mi sembra il modo meno stupido per chiedere scusa, ma sento che potrebbe non bastare. Così allungo una mano, gli sfioro una spalla e, sperando che non mi senta, sussurro: "Non avevo capito la domanda...".
Vorrei tornare a Cuba per ricevere altri regali così. Per ritrovare il segno della lotta contro la banalizzazione del confronto sociale e la riduzione della politica a meschina contrapposizione di interessi. Non è necessario essere ricercatori, giornalisti o studiosi. Cuba sa sempre come farti questi regali: intuizioni di un mondo "altro" ti piovono addosso senza cercarle, basta saperle accogliere.
Il paradiso non è di questa terra e Cuba non sfugge a questa legge: è fatta di uomini. Ma è uno straordinario laboratorio che il mondo, invece di angariare, dovrebbe preservare e coccolare. Perché il giorno in cui Cuba dovesse "confondersi", il mondo tutto perderebbe l'ultima occasione per specchiarvi le proprie ipocrisie.