
Negli ultimi tempi ha ottenuto notorietà il libro /Tecno-feudalesimo/, dell’autore greco Yanis Varoufakis, che propone interessanti elementi per analizzare le trasformazioni del capitalismo nella sua fase digitale.
Varoufakis argomenta che le grandi corporazioni tecnologiche hanno rimpiazzato le dinamiche tradizionali della competenza capitalista, con monopoli basati nel controllo delle piattaforme digitali e l’estrazione di redditi.
Questo modello, secondo l’autore, non solo concentra richezza ma anche potere politico, erodendo le basi democratiche e consolidando nuove relazioni di dipendenza che ricordano il feudalesimo medievale, an che se con caratteristiche inedite, particolarmente determinate dall’ emergenza del territorio digitale, con scala globale.
Anche se la sua proposta rappresenta un valido apporto per riflettere sulle irreversibili trasformazioni che avvengono nel sistema capitalista, presenta anche certi limiti che, se non considerati potrebbero condurre ad analisi e conclusioni imprecise, e quindi a errori politici e strategici
In primo luogo, tenta di spiegare le particolarità di un nuovo sistema di sfruttamento, basandosi in relazioni di produzione del passato.
Detto in altro modo, il tecno-feudalesimo funziona meglio come una metafora per descrivere le trasformazioni che osserviamo, invece d’offrire un’analisi concreta e dettagliata delle nuove relazioni di produzione che potrebbero emergere.
Se, come dice Lukács, la storia è lo svolgimento stesso delle categorie, possiamo stabilire che, anche se Varoufakis offre una lettura suggerente sul’evoluzione del capitale e il sorgere del tecno-feudalesimo, la sua analisi si vede limitata per la precocità con la quale concettualizza certi fenomeni nello stesso tempo in cui continua ancorato a categorie del passato.
La sua lettura sembra non capti una differenza sostanziale tra il processo di lavoro nel feudalesimo e nel processo di lavoro attuale. Mentre il primo si realizzava principalmente nella terra, come fattore di produzione, il secondo si sviluppa nella virtualità, in tanta materia elaborata.
Questa caratterística differenzia sostanzialmente la produzione della quotidianità sociale nell’attualità, già che non solo si basa nello sviluppo di un processo produttivo che suppone lo sfruttamento di un lavoro passato, ma che nello stesso tempo, costituisce una relazione fondamentale dell’essere sociale delle cose, per il quale il processo d’alienazione assume caratterístiche particolari, così come anche la produzione di soggettività e senso comune.
LAVORARE PER ALTRI SENZA FARSI PAGARE
Certamente, lo sviluppo delle forze produttive ha generato nuovi meccanismi di sfruttamento e dominio, facendo pressione su categorie tradizionali del capitale con l’introduzione di tecnologie digitali.
Senza dubbio questo non giustifica rimpiazzarle per concetti come il reddito, che non riescono a captare pienamente la profondità di questi cambi strutturali.
In questa maniera, attualmente possiamo osservare come la riduzione dei tempi di produzione ha perso centralità nel processo d’accumulo del capitale, per spostarsi verso l’appropriazione del tempo disponibile.
Detto in altre parole la virtualità funziona come una nuova fabbrica, capace di sfruttare il lavoro durante il tempo che prima era dedicato all’ozio e al riposo, nello stesso tempo che si giustappone con la giornata lavorativa tradizionale.
Anche se questo fenomeno suppone un nuovo meccanismo per l’estrazione del plus valore, va detto anche che questa si consolida nell’accumulo di capitale in quanto tale, cioè in valore che si valorizza.
Quello che vogliamo segnalare è semplicemente che il grande seminario globale consolidato attraverso la digitalizzazione, funziona grazie allo sviluppo di mezzi di produzione che permettono d’ampliare la scala di sfruttamento e il grado di penetrazione dei processi produttivi nella vita sociale.
Si può semplificare con il noto caso di Pokemon Go, il popolare gioco che consisteva nella cattura di creature attraverso dispositivi intelligenti connessi a internet.
I dati sottratti dall’interazione degli utenti furono utilizzati per lo sviluppo di modelli d’intelligenza artificiale geo-spaziale. Anche se questi nuovi schemi produttivi propongono serie sfide per le possibili analisi, osserviamo che continuano a perpetuare alcune caratteristiche chiave del sistema capitalista di produzione, come lo sviluppo del capitale costante per accumulo di ricchezza socialmente prodotta.
Come conseguenza, non possiamo dire che questi fenomeni non costituiscono un cambio qualitativamente distinto nello sviluppo del capitale, ma non possiamo nemmeno terminare di spiegarli partendo dal reddito.
Sembrerebbe invece che la presunta «vendetta del reddito» che formula Varoufakis, sia un approfondimento del guadagno in un nuovo formato e in nuovi termini.
Ugualmente, anche se l’emergenza dei giganti tecnologici ha provocato il consolidamento dei monopoli, non possiamo dire che la loro costituzione e dinamica stanno scavando i meccanismi del mercato del capitale.
Al contrario, attraverso questi meccanismi possiamo spiegare la crescente disputa per la nostra attenzione, che ha portato queste compagnie a sviluppare tecnologie sempre più ubicue e penetranti.
Non c’è dubbio che l’irruzione delle tecnologie digitali ha trasformato profondamente i dispositivi e i meccanismi di potere nelle società borghesi, giungendo al punto di mettere in crisi le democrazie degli Stati-nazione tradizionali.
In questo senso i capitali tecnologici disimpegnano un ruolo cruciale nella direzionalità politica e ideologica dei congiunti sociali, non solo per la loro influenza nelle cupole super strutturali, ma anche per gli stessi dispositivi che utilizzano nei loro schemi di produzione.
L’EVOLUZIONE VERSO UN POSTCAPITALISMO?
Sembra che non possiamo avventurarci a classificare queste nuove personificazioni come «signori tecno feudali», quando in realtà disimpegnano il ruolo di una nuova aristocrazia finanziaria e tecnologica, che ha le sue origini, come personificazione del capitale, dalla Rivoluzione Francese analizzata da Marx.
È comunque legittimo sostenere, como Varoufakis insinua, che questa fase del capitalismo potrebbe star transitando verso un nuovo sistema.
Anche se le categorie fondamentali del capitalismo tuttavia strutturano l’economia globale, l’avanzare tecnologico e la trasformazione delle relazioni di lavoro potrebbero mettere le basi per un sistema post- capitalista.
Certo per far sì che questo transito si concreti, sarà necessario un cambio nelle relazioni sociali fondamentali che superi la dipendenza del capitale rispetto al lavoro umano, cosa che sino ad ora continua ad essere il nucleo di questo modo di produzione.
Le proposte audaci e dirompenti delle cornici teoriche classiche sono centrali nell’ora di analizzare letture sui tempi che trascorrono.
Senza dubbio la vigilanza della certezza delle nostre diagnosi è una necessità urgente, già che determina le condizioni di possibilità di costruire un progetto e un programma con iniziative delle classi subalterne che disputino e conducano i processi rivoluzionari che si succedono immancabilmente in una tappa di cambio sistemico.
Sbagliarsi nella diagnosi rappresenta, oggi più che mai, un errore strategico. Il lavoro umano, come capacità creativa, come forza viva posta nel centro del dibattito, in tempi nei quali è ancora possibile disputare un nuovo sistema senza sfruttati o sfruttatori, è un’arma fondamentale di fronte ai fatalismi –chissà innocenti, chissà no– che producono certe analisi politiche, per quanto ben intenzionate siano. •
*Master in Politiche Pubbliche e Direttore delle Investigazioni dell’agenzia argentina Nodal.





